Il concetto di etica ha connotazioni molto fluide, a seconda del significato che ognuno gli conferisce in ragione della propria cultura di riferimento. Quello che porto dentro l’ho appreso attraverso la pratica della meditazione Vipassana: un comportamento lo si può considerare etico quando nasce da una mente ferma.
Non sono un insegnante di meditazione perciò lo proverò a spiegare a partire dalla mia esperienza maturata fino a questo preciso momento nel quale sto scrivendo: una mente ferma non significa determinata nel perseguire uno scopo, bensì non oscillante fra pensieri e fantasie devianti rispetto al momento presente, “ferma” diventa pertanto sinonimo di “aderente alla realtà”, e una mente aderente alla realtà consente di “vederla” con chiarezza e lucidità, per quella che è e non per come la immaginiamo; arrivare a “vedere con chiarezza” equivale a liberarsi dai condizionamenti pregressi, per lo più inconsci, che ci portano ad interpretare i fenomeni nel modo che consideriamo l’unico possibile, mentre, con un minimo di attenzione ed onestà intellettuale, dovremmo ammettere che è solo una delle possibili variabili interpretative.
Ma interpretare significa orientare conseguentemente le nostre decisioni, per cui la nostra visione delle cose, oltre che essere condizionata da comportamenti passati, è condizionante verso gli sviluppi futuri, senza che noi ne abbiamo la minima consapevolezza.
L’obiettivo virtuoso è sentirsi responsabili del nostro agire e della nostra vita, anche quando ci
consideriamo vittime di qualcosa o di qualcuno.
È un’affermazione questa che può apparire difficile da comprendere fino in fondo, ed anche fuorviante se la si associa al senso di colpa, come appunto siamo “abituati” a fare. Essere responsabili non vuol dire essere colpevoli di qualcosa, bensì essere capaci di rispondere di qualcosa: si sottolinea la parola “responso”, proprio per evocare il “responso dell’oracolo”, attribuendogli quindi un valore molto più profondo dell’accezione quotidiana.
Per entrare nel ragionamento non importa essere buddisti, ma basta appellarsi all’intelligenza universale e laica verso le cose, e provare così ad immaginarsi parte integrante di un sistema, dove ogni singolo piano sia interconnesso agli altri e dove quindi ogni singola parte concorra, nel micro, al funzionamento del macro. Se per esempio uccido un’ape, influenzo, seppur in minimissima parte, il sistema di impollinazione dei fiori e quindi la fruttificazione, solo che l’effetto è talmente diluito che non riesco ad averne percezione; questo non mi rende un pericolo per l’umanità e non deve condurmi verso atteggiamenti ultra ortodossi, però se continuo a non rendermi conto degli effetti di ogni mio gesto, perché la mia mente è “distratta”, posso arrivare a rendermi complice nella creazione di un danno ben più evidente, inconsapevole ma responsabile. I giornali ci offrono quotidianamente esempi di “potenziali” danni non percepiti sul momento.
Tutto questo accade in ogni istante della nostra vita.
Prendiamo in prestito i recenti studi di epigenetica (cfr. La biologia delle credenze di Bruce Lipton),
i quali affermano che, piuttosto che controllarci, i nostri geni sono sotto il controllo di influenze ambientali al di fuori delle cellule, inclusi i pensieri e le nostre credenze. Questo prova che non siamo degli “automi genetici” vittime di un’eredità biologica, bensì siamo i co-creatori della nostra vita e della nostra biologia. Ovvero, per dirla in altri termini, siamo “responsabili” di noi stessi, ivi compreso il nostro stato di salute, solo che non ne abbiamo coscienza.
Ma possiamo adottare anche una riflessione filosofica fra le tante: il filosofo tedesco Gunther Anders (1902-1992) teorizzò quella che lui definì “la discrepanza prometeica” (Promethéus “colui che riflette prima”). Il suo pensiero si forma in un’epoca nella quale il tema del nucleare era un tema sensibile e lo portò a considerare la necessità di immaginare la ricaduta del proprio agire, da parte dell’operaio addetto alla produzione di piccole parti da assemblare poi in un ordigno nucleare. Anders affermava il dovere (giuramento ippocratico) di “immaginare” la ricaduta delle proprie azioni, perché il rimanere volontariamente nell’ignoranza rende responsabili di ciò che concorriamo a creare, anche se apparentemente distante da noi.
Invece di ingannare la coscienza dell’uomo, una società sana la dovrebbe allenare a “vedere la realtà”, perché rappresenta l’argine naturale verso l’arroganza distruttiva e prevaricante che l’essere umano ha verso ogni cosa diversa da lui.
Comprendere questo bisogno aiuta a comprendere l’utilità sociale di tutte quelle discipline che hanno proprio questa finalità: rendere coscienti.
Io pratico ed insegno lo Shiatsu, quindi mi rivolgerò alle sue qualità.
Lo Shiatsu (così come molte discipline corporee olistiche) ha nel suo DNA questa attenzione verso
l’interno a cominciare proprio dall’operatore. Un operatore che intenda sostenere il disagio di
un altro individuo, lavorerà su di sé per rendere il proprio intervento prudente e il meno manipolatorio possibile, così da non interferire arbitrariamente sull’interno dell’altro; in altri termini non si sostituirà al personale progetto di salute della persona ma anzi lo sosterrà con responsabilità, senza confonderlo col proprio, tenendo appunto un comportamento etico.
Lavorare su di sé significa “immergersi” nella propria struttura energetica, percependola,
conoscendola, sviluppando parallelamente un “contatto” dell’altro più neutro possibile, senza
orientare e/o giudicare in ragione di una supposta giusta visione delle cose: ogni volta che cerchiamo di sostituirci all’altro stiamo solo proiettando noi stessi su di lui, e tutto ciò non è etico,
anche se spesso pensiamo che lo sia.
Intraprendere un percorso Shiatsu conduce quindi verso una progressiva riconnessione con se stessi, che muta le reazioni in azioni: “vedere” il condizionamento del nostro agire ci pone su un piano di libera scelta, quindi nella possibilità di assumercene coscientemente la responsabilità. Riconnettersi vuol dire andare in profondità e sottrarsi al piano meccanicistico, conflittuale e turbolento, tipico della superficie, che domina invece la nostra quotidianità.
Ovviamente ciò non ci salverebbe dalle crisi, perché ogni cambiamento nasce sempre da una crisi, ma l’etica porterebbe ad una spontanea accoglienza delle istanze dell’altro, non imposta da regole o morali, con un atteggiamento naturale verso la vita, come consapevolezza del fatto che l’altro è vitale per noi, è una risorsa, molto di più di quel che possiamo razionalmente pensare: distruggereste volontariamente una parte del vostro corpo illudendovi che questo non avrebbe conseguenze sul resto? Eppure facciamo le guerre e inquiniamo i fiumi.
Viviamo in perenne “distrazione”, verso gli altri e verso noi stessi, solo perché non ci sforziamo di “vedere” l’origine delle nostre azioni, né, e sarebbe forse anche più facile, immaginiamo la ricaduta delle stesse. E anche qualora le immaginiamo, ci siamo ormai talmente allontanati da un senso etico dell’esistere, che le nocività che creiamo a noi e agli altri le consideriamo “danni collaterali” necessari, se non addirittura normali.
Lo Shiatsu, come tutte le discipline affini ad esso per principi e finalità, va quindi tutelato e conservato, perché benefico per il genere umano.