di Andrea Mascaro
Ci sono temi con i quali facciamo una gran fatica a confrontarci, come il concetto di universo (o multiverso), di infinito e di vuoto, rispetto ai quali cioè percepiamo chiaramente i nostri limiti intellettuali; per non smarrirci allora tendiamo spontaneamente a rimuoverli dai nostri orizzonti oppure a lasciarli sulla corteccia più esterna del nostro essere, la razionalità, stando ben attenti a non farli entrare.
Ma è una fuga vana perché questi concetti, che potremmo definire “universali”, si presentano a noi sotto altre vesti e con altri nomi, che sono invece inevitabilmente integrati nella nostra quotidianità e ai quali non possiamo sottrarci; ed ecco allora che, come dei Cavalli di Troia, si svelano in noi proprio quando pensiamo che stia andando tutto bene. Sono nascosti in parole che siamo obbligati ad usare anche senza volerlo, e che dialogano dentro di noi in continua alternanza ogni giorno della nostra vita; parliamo di vita/morte, salute/malattia.
Ma ci troviamo davanti al concetto di “vuoto” anche ogni volta che siamo prossimi ad un cambiamento vero, che ci farebbe uscire cioè dalla nostra cosiddetta zona di comfort, laddove le nostre abitudini collaudate non basteranno più e tutta la nostra esperienza accumulata si rivelerà insufficiente se non arricchita da qualcosa di ignoto. Portare la nostra energia verso il vuoto quindi diventa sempre evolutivo, ma fa anche paura e spesso rinunciamo e continuiamo così ad accumulare l’energia del cambiamento che diventa ristagnante.
Come annunciato dal titolo proverò ad ipotizzare un fil rouge tra la nostra “origine cosmica”, per usare un eufemismo, ed il modo in cui la decliniamo, più o meno consapevolmente, nelle nostre attuali abitudini quotidiane; quindi probabilmente spericolati potranno apparire anche alcuni degli argomenti che userò, lo so, proverò pertanto a mantenere un certo equilibrio.
Innanzi tutto premetto che quando parlo di “origine cosmica” non lo faccio con l’intento di entrare nelle varie cosmogonie che l’umanità ha immaginato nel tempo nel tentativo di dare un senso alla vita ed alle quali ognuno di noi aderisce liberamente in base al proprio sentire e al proprio bisogno. Ne parlo piuttosto con una accezione analogica: in noi agiscono le stesse forze che governano l’universo, siamo cioè manifestazione vivente delle stesse forze.
Questo vuol dire che ognuno di noi incarna un potenziale energetico che, così come accade per ogni fenomeno dell’universo, e probabilmente per l’universo stesso, “respira” ovvero si espande e si contrae continuamente, generando ogni volta vita nuova emergente, alleggerita di ciò che non serve più ed arricchita da ciò che invece sarà funzionale alla nuova espansione.
Ognuno di noi ha/è una forza cosmica che passa continuamente da disordine a ordine, ogni volta con un’organizzazione sempre nuova e irripetibile. Rispetto a questo noi viviamo in continuità con la dimensione cosmica ma di regola non ci portiamo la coscienza. Siamo come delle stelle ma siamo ignari di esserlo.
Ma allo stesso tempo abbiamo delle qualità che ci rendono unici nell’universo e in un certo senso ci mettono in discontinuità con lo stesso: abbiamo cioè la capacità di prendere coscienza del fenomeno.
Questo ci permette di avere ogni volta una rappresentazione mentale nuova e quindi una direzione nuova da prendere, ovvero di creare qualcosa che prima non c’era, non di ripetere qualcosa di già esistente perciò, ma di creare.
Questa è la bella visione, la realtà che viviamo però appare molto distante da essa, ed il frutto quindi di ben altra visione.
In questo momento storico, probabilmente molto più di quanto sia stato finora, siamo talmente assorbiti dalle cose materiali di tutti i giorni che reputiamo fondamentali, inderogabili e soprattutto eterne, da non riuscire più a dare spazio alla percezione del nostro essere che respira e che nasce e muore ogni istante (apoptosi: ogni giorno miliardi di cellule muoiono per lasciare il posto a quelle nuove); quando per una qualche ragione arriviamo a percepirci più in profondità, riusciamo a dare al nostro agire una forza spirituale che ci corrobora, ma appaiono come momentanei stati di grazia, quando tutto improvvisamente sembra essere al posto giusto, compresi noi stessi, poi torna il caos.
Ma perché sto partendo da così alto prima di atterrare sulla nostra realtà quotidiana? A cosa ci può servire sapere che l’universo è in noi e noi siamo in lui? Che in ognuno di noi, come nelle stelle, c’è una forza distruttrice continuamente bilanciata da una forza creativa? E soprattutto a cosa può servire pensare questo rispetto alla salute?
Per capire il nostro tempo partiamo dal concetto di salute che emerge semplicemente osservando le nostre abitudini e quello che ci viene quotidianamente suggerito di fare attraverso le prescrizioni mediche, le indicazioni dei Governi finanche la pubblicità: il concetto di salute oggi non contempla l’esistenza del dolore, che quindi va soppresso, così come i sintomi e le loro cause, che, non appena individuate (sempre più attraverso una diagnostica strumentale), vanno corrette e regolate farmacologicamente in maniera lineare e non sistemica. La nostra vita deve dipendere cioè da una pillola.
Questo atteggiamento domina probabilmente anche perché riceve il sostegno dell’OMS. La sua definizione di salute ci vuole in un stato di totale benessere; ma uno “stato di totale benessere” non ammette oscillazioni e se quindi emerge un malessere questo va immediatamente eliminato con un farmaco anti-qualcosa come se fosse già una patologia. Pertanto, se guardiamo bene, l’OMS ha di fatto promosso questo stato di cose perché tutte le politiche medico-sanitarie sono state pensate e sviluppate a partire da questo principio, e questo ha contribuito a creare una forma di pensiero egemonica (una vera e propria eggregora, come la chiamerebbero gli antichi greci) ormai globale: qualsiasi forma di malessere, di ogni ordine e grado, deve restare fuori dalla nostra vita quotidiana.
Ognuno provi ad immaginare le ricadute quotidiane, sociali e relazionali, condizionate da questo semplice ma pervasivo principio guida, che ci mette in costante competizione con ciò che non ci piace piuttosto che vederlo come una polarità diversa ma complementare, per cui l’unica soluzione possibile risulta essere sempre la frattura invece che il dialogo.
Questa è la visione che crea la realtà e che viene promossa continuamente nel nostro tempo.
Ma se tutto quello che abbiamo visto in apertura è vero, se tutto nell’universo si espande e si contrae, se cioè ogni fenomeno è sospinto da una forza energetica che aumenta e diminuisce ciclicamente, come possiamo immaginare di stare bene quando passiamo la vita ad impedire che questo processo naturale si realizzi in noi, che incarniamo le stesse identiche leggi universali? Come pensiamo di star bene se non tolleriamo questa oscillazione e quindi il conseguente cambiamento?
Uno “stato di totale benessere” appare quindi per quello che è: un’utopia.
Proviamo quindi ad immaginarci per come siamo profondamente: un campo bioelettromagnetico che ha un’energia potente che, come ogni fenomeno dell’universo, si espande e si contrae inevitabilmente in un’oscillazione continua.
Pensiamo poi che ogni frequenza energetica ha specifici correlati emotivi, motivo per cui possiamo percepirci tristi, o arrabbiati o impauriti o felici a seconda della frequenza attiva in quel momento; ma che ha anche specifici correlati fisici (tutta la nostra anatomia e tutta la nostra fisiologia).
Pensiamo inoltre che la nostra capacità organizzatrice ha bisogno di eliminare continuamente le energie disgregate e ormai inutili (possiamo chiamarle tranquillamente spazzatura), processo che passa sia dal piano psichico che da quello fisico, e che questi correlati ce ne “parlano” regolarmente attraverso le sensazioni psico-corporee.
Pensiamo infine che viviamo integrati nel nostro ambiente, col quale abbiamo un continuo e reciproco scambio di informazioni materiali e non materiali, e che siamo altresì figli della nostra cultura, la quale a volte promuove e a volte osteggia il cambiamento.
Se riusciamo a immaginarci così, comprendiamo allora la fondatezza del principio biologico secondo il quale i sistemi fisiologici si mantengono stabili (omeostasi) solo attraverso il cambiamento (allostasi). Quando questo cambiamento fatica a realizzarsi, per qualsiasi ragione, la carica energetica aumenta fino a superare una soglia di sopportazione (eccessivo carico allostatico) e il sistema va in stress negativo (distress) e alla lunga si infiamma, e tutto questo si manifesta a noi attraverso dei segnali psico-fisici che diventano sempre più forti e quindi più facilmente percepibili (i c.d. sintomi). E noi cosa facciamo? Li sopprimiamo.
Ma secondo voi, a questo punto la domanda sorge spontanea, quella carica energetica, figlia del cosmo, cosa fa? Continua ad aumentare o rientra? Non rientra. E se continua ad aumentare senza generare il cambiamento che dovrebbe generare, da qualche parte dovrà pur scaricarsi, il problema è che andrà a scaricarsi sulla materia più prossima a noi, ovvero noi stessi. Questo è l’ABC della psicosomatica.
Più impediamo il cambiamento più il sistema si infiamma. Però spesso ci confrontiamo con cambiamenti che appaiono impossibili da attuarsi, o che comporterebbero reazioni che non ci sentiamo pronti a sostenere. L’unica direzione quindi sembra diventare il cambiare atteggiamento mentale, che è alla base dei nostri comportamenti, e il nostro agire orienta la nostra energia, e quindi crea la nostra vita, più di quanto immaginiamo.
La bella notizia quindi è che l’energia che non genera il cambiamento non torna indietro, è vero, ma può essere riconvertita e generare quindi un altro cambiamento, ma questo richiede un certo grado di consapevolezza.
Siamo fatti di relazioni, e allo stesso tempo figli dei nostri condizionamenti culturali, quindi ogni volta che ci troviamo davanti ad una scelta dovremmo poter percepire in noi cosa spinge e cosa frena, da questa frizione nasce un problema da risolvere che rende la nostra vita evolutiva. Evolversi vuole semplicemente dire andare oltre i nostri automatismi e i nostri istinti, correggendoli passo passo. Abbiamo detto che abbiamo la possibilità di prendere coscienza dei nostri gesti ed è questo che ci rende diversi e unici nell’universo.
Dobbiamo cioè ricercare un filo che leghi le nostre esperienze e le renda evolutive per noi. Antonovsky, padre della salutogenesi (letteralmente ciò che genera salute), definiva questo filo ”senso di coerenza”, capace di orientarci e darci la sensazione di governare la nostra vita anche attraverso le esperienze di sofferenza, le quali quindi diventano occasioni di crescita e non solo dei bocconi amari da ingoiare. Il malessere quindi non va negato ma va valorizzato, cioè gli va riconosciuto un valore esistenziale.
Quindi il malessere fa parte della salute tanto quanto il benessere.
Non possiamo pensare però di governare tutto questo solo sul piano materiale bensì dobbiamo tornare a frequentare i piani spirituali dell’esistenza, attitudine che si è progressivamente smarrita per strada nella nostra attuale società. Se infatti adesso parliamo di spiritualità in un contesto normale e non specifico quasi ci sentiamo inopportuni e comunque sentiamo di dover fare ogni volta delle prudenti premesse. Bene questo è il momento di slatentizzare e rimettere in campo anche il piano invisibile, o ultra molecolare, o divino, o spirituale, o energetico, ognuno trovi la sua parola.
Antonovsky infatti teorizzò la salutogenesi studiando le donne che erano sopravvissute ai campi di sterminio nazisti, ed aveva capito che alcune di quelle donne, nonostante quell’esperienza drammaticamente tragica, avevano ritrovato un senso verso la vita, che dette loro la possibilità di utilizzare al meglio le poche risorse disponibili continuando a crescere e non solo a sopravvivere. Possiamo essere concordi nel dire che ciò che era per loro visibile in quel momento non possiamo certo considerarlo sufficiente per realizzare questo.
Per prendere coscienza profonda della nostra vita dobbiamo però metterci nelle condizioni di farlo e dotarci di strumenti adatti. Dobbiamo cioè sviluppare quella capacità di ricollegamento con noi stessi che ci consenta di percepirci oltre che di pensarci. L’Oriente è stato prolifico nel dare all’umanità strumenti idonei a questo scopo, con le pratiche spirituali e di consapevolezza tra le quali riconosciamo in primis la meditazione. Ma ci ha donato anche discipline corporee come lo Shiatsu.
Lo Shiatsu, proprio perché è una stimolazione direttamente collegata alle risposte del corpo-mente, diventa un prezioso percorso di riconessione con se stessi. Chi riceve un ciclo di trattamenti stimola la propria energia a spostarsi da dove ce n’è troppa verso dove ce n’è poca (dal pieno al vuoto di cui abbiamo parlato prima), si ritrova così piano piano a compiere tanti piccoli passi di consapevolezza ed a percepire di sé cose che prima ignorava, e spontaneamente si riposiziona su una strada che sente più coerente per se stesso. Tutto nasce da dentro di lui, niente può essere imposto dall’esterno in questo processo evolutivo.
In conclusione siamo micro universi figli del cosmo, ma fuggiamo tutti i giorno da questa consapevolezza sperando di trovare l’eternità nella nostra vita, cercando con ogni mezzo di sottrarci al dolore perché ogni volta il dolore è un bagno di realtà. Siamo dei veri maghi capaci di creare la realtà, ma viviamo ignorando di esserlo ed abbiamo imparato al massimo a fare qualche gioco di illusionismo, nel quale però siamo i primi a cadere. E quindi invece di rilassarci e sostenere l’energia che siamo, continuiamo a costruire bombe “intelligenti” e farmaci miracolosi.